Il mio berretto a sonagli - di Vittorio Camacci
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La ricostruzione è cominciata, molto lentamente, muove i primi passi. Orme sulla terra appena scavata di nuove fondamenta che vanno verso una direzione ben definita, a volte illogica, che riflette in uno specchio di verità, quella che ormai tutti sanno: ci sono percorsi privilegiati riservati a pochi eletti ed un'enorme fila di terremotati bisognosi che non trova una strada, confusa ed illusa da tante promesse ed infiniti inganni.
A memoria di tutto ciò restano ancora le macerie del capoluogo e di tante frazioni, resta la solitudine di persone di buona volontà. Tutto il resto è desolazione sociale. Guardando i panni stesi davanti le casette dei villaggi provvisori capisco delle cose: c' è chi deve arrangiarsi con improvvisati stendini, come miseri appigli, e chi già gode della visione di gru e ponteggi piazzati da chi ha cominciato a ricostruirgli la casa. Da questo si può intravedere il nostro futuro: per qualcuno è stata accesa la luce, è stata data un'opportunità mentre altri sono costretti ad andarsene, sfiancati da una burocrazia e da interessi ostili invalicabili. Per queste persone i tramonti si fanno tristi, cupi e la solitudine entra come il freddo dentro le ossa. Capiscono di essere isolate, emarginate, escluse da un percorso di speranza. Sono come le abitazioni spaccate a metà dal sisma con le pareti inclinate sul vuoto, sono come le macerie che restano, sono la seconda scelta, quelli che non servono. Per essi tutto rimane come quella notte di fine agosto che tolse tutto, anche la piccola speranza di vita in questo paradiso naturale.
Io sono dalla parte di queste persone, quelle sole, quelle ferite, non le abbandono e con spirito francescano li considero miei fratelli. Per loro sono tornato alla natura, alla montagna, sono tornato alla terra che mi ha partorito, quella arquatana, attraverso il ventre di mia madre che è accumolese, in una stanzetta del vecchio ospedale di Amatrice, in una notte di dopo-festa dal cielo stellato in cui si sentiva solo il mio vagito ed il sospiro del vento della Laga. Oggi sono rinato a nuova vita, sono figlio di questo terremoto, arditamente coltivo la terra e curo il bosco. La mia vita è dura ed il lungo inverno di montagna con la neve che copre ogni cosa spesso mi mette in difficoltà. Stare qui è dispendioso, non ci vado pari e ci rimetto. Ma qui, su queste montagne, dove i miei avi hanno combattuto con la fame e la fatica, respiro a pieni polmoni, con il Vettore che mi guarda immobile e silenzioso. Mi accompagna la malinconia di non essere capito delle mie scelte, per alcuni incomprensibili e folli. Ostinato continuo a vivere in armonia con il profumo di ginepro e delle bacche di rosa canina, una vita assurda, senza guadagno, in un posto romantico e troppo selvaggio, abbandonato anche dalle anime dei Santi eremiti che qui vissero tanti anni fa.
Purtroppo, sono solo, solo con i miei sogni ed i miei racconti, le mie fantasie ed i miei amori stretti nel cuore. Un cuore piccolo ed infinito che batte e sussulta per ogni meraviglia di questa terra, per ogni tocco di campana delle nostre provvisorie chiese. Mi sento come quel lupo zoppo che incontro ogni tanto sul sentiero per la Madonna dei Santi in mezzo ai ginepri di Colle Capraro. Mi guarda con occhi grandi e malinconici, appena mi vede scappa zoppicando sul soffice manto erboso tra chiazze di neve. La zampa anteriore sinistra è piegata, non tocca mai terra. Il lupo arranca sempre ma mi indica la strada, capisco che ha bisogno di aiuto, da invalidato si sente solo ma continua a sopravvivere. La sua malinconia di stella cadente, di bestia ferita mi ha insegnato che la sofferenza può essere amore, l’importante è avere un obiettivo di vita, un guizzo negli occhi. Lui mi ha dato la forza di passare l'inverno ed io l'ho nutrito, l'ho accudito e spesso gli faccio compagnia parlandogli con dolci sussurri. Ho compreso che questo forte animale sarà presto condannato ad un triste destino, l'implacabile legge della natura.
Un lupo zoppo ed un uomo incompreso, un binomio perfetto che da speranza a questa terra martoriata, che ci fa continuare ad amare il prossimo come fosse noi stesso. Il folle scrittore ed il lupo ferito tra i primi fiori e le ultime nevi, tra le poesie ed il vento freddo, tra una scelta di vita difficile e contraria e le comodità illusorie costruite con l'ipocrisia e con l’inganno. L'amore è dentro di noi e per esprimerlo può bastare la solidarietà ad una bestia ferita, un gesto semplice per sentirci meno soli ed in armonia con il Creato.
Vittorio Camacci
10 anni dell’Associazione CISI
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Con la mission di aiutare le persone a essere parte viva di una società nuova, composita e complessa, il 26 febbraio 2011 nasce il Centro per l’Integrazione e Studi interculturali. Da allora CISI ha promosso numerose attività che valorizzano le differenze come strumento di consapevolezza e autocritica. Festeggiamo questo primo decennio di un’associazione nata dalla volontà di stare, sempre con nuove progettualità che ci permettono di stare accanto alla nostra comunità di riferimento.
Il presidente Ivano Corradetti “CISI è una vera associazione, fatta di persone di qualità che hanno la volontà di fare progetti ambiziosi in grado di tessere relazioni virtuose. Ricordo nel 2011 l’atto costitutivo nella sala dell’appartamento dell’Housing Sociale appena affittato con mia moglie. Alcune persone sono cambiate, ma lo spirito che si respira è sempre costruttivo e proattivo”.
Il vicepresidente Giuseppe Di Caro “CISI è stata una scoperta continua che interseca forme d’arte all’integrazione sociale, una famiglia che anche tramite foto e video è in grado di raccontare la propria prospettiva in ottica di sensibilizzazione”.
Con un direttivo ormai di 7 persone, CISI sceglie di partire prima di tutto dal territorio, dalla storia locale e dalle sue ricchezze, per aprirle al mondo e creare una rete accogliente, fatta di conoscenza reciproca, fiducia e amicizia, coinvolgendo persone, enti, associazioni, paesi e in generale tutti i soggetti che abbiano interesse a “incontrarsi”.
Tanti i progetti fatti, e numerosi quelli in essere, CISI è anche un Circolo ACLI ed orgoglioso socio della Bottega del Terzo Settore, questo proprio perché crede moltissimo al valore della collaborazione.
Proprio in occasione di questo importante compleanno, CISI invita tutte le persone interessate alle nostre attività a iscriversi all’associazione. Per informazioni scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o telefonare a 3283674760
Ascolinscena: scelte le compagnie teatrali della XIV Edizione
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Ascolinscena è la rassegna di teatro amatoriale che si svolge ogni anno al PalaFolli di Ascoli Piceno, organizzata da Castoretto Libero, DonAttori, Li Freciute e la Compagnia dei Folli. La Rassegna è sempre andata in scena tra novembre ed aprile, ma le difficoltà di questo periodo hanno convinto gli organizzatori a posticiparla, nell’attesa di tempi migliori.
Nonostante la chiusura dei teatri e lo spiraglio di una apertura che tra retrizioni e limiti non permetterà di ripartire subito, gli organizzatori hanno comunque voluto rendere ufficiali gli spettacoli che parteciperanno alla fase finale del Concorso per l’assegnazione dei Premi Ascolinscena 2021. L’idea è quella di essere pronti a ripartire nella speranza di avere tempo di organizzare il tutto.
Aver selezionato gli spettacoli è comunque un atto di resistenza in un periodo veramente difficile per il settore, un raggio di luce per molti che aspettano di tornare in teatro. Per questo il sottotitolo della Rassegna è “ViralEdition” nella speranza che diventi virale la voglia e la gioia di tornare a teatro.
Tra i 30 lavori giunti, sono state selzionate cinque spettacoli che andranno a costituire la XIV Edizione di Ascolinscena e sono:
“Una volta nella vita” – Bottega dei Rebardò (Roma)
“E fuori nevica” – Compagnia Ci Credo (Macerata)
“Da giovedì a giovedì” – Compagnia Il Focolare (Loreto – AN)
“Le prenom – Cena tra amici” – Gruppo Teatrale Tempo (Carugate – MI)
“L’amico Sancio” – Laboratorio Minimo Teatro (Ascoli Piceno).
Il cartellone della XIV Edizione sarà arricchito anche da due nuovi spettacoli fuori concorso delle compagnie organizzatrici e dalla serata finale che, da ormai tre anni, è abbinata al concorso AVIS IN CORTO, organizzato con l’Avis Provinciale di Ascoli Piceno, la cui selezione è ancora in corso.
La speranza è quella di poter definire quanto prima le date della Rassegna, ma nel frattempo il PalaFolli teatro, in attesa di una riapertura programmata, ha già provveduto a studiare la nuova disposizione degli spettatori in platea e la nuova segnaletica per il rispetto delle norme previste in questo periodo.
Info www.palafolli.it – 0736 35 22 11
Gli ultimi mulattieri - di Vittorio Camacci
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Uno dei più dolci ricordi della mia infanzia erano i giorni passati in compagnia degli ultimi mulattieri.
Nella fantasia di un bimbo, vivace e immaginoso come me, essi erano dei "Sacerdoti del Tempo”. Stare dietro a Gigi, Giò, Zio Milie, Marà, Vico, Minghe, Giancarlo, Caiola era come tornare indietro nel tempo, anzi, era mia convinzione che essi provenissero da un’altra epoca perché vivevano una dimensione particolare, molto personale: interagivano con i loro animali, spesso parlavano con loro, vivevano una simbiosi unica che si rapportava ai tempi naturali delle stagioni. Avevano a che fare con bestie pazienti e cocciute che si muovevano sotto il suono ipnotico degli zoccoli, che non galoppavano mai e trottavano soltanto al passo di carico, da condurre tra guadi di fossi e dirupi, come una pena infinita.
Come i loro animali, avevano inoltre una grande resistenza alla fatica ed una fortissima capacità d'adattamento alle condizioni climatiche più cangianti ed avverse. Inoltre, erano profondi conoscitori dei sentieri e del territorio dove sapevano orientarsi con estrema bravura. Il mulo è un animale ibrido che si ottiene dall'accoppiamento dell’asino con la cavalla, mentre dall'accoppiamento inverso, deriva il bardotto. Per questo fatto il mulo è un animale sterile che assomiglia più all'asino che al cavallo e per questo ha pregevolissime doti di resistenza, ostinazione e pazienza.
È un animale prezioso in montagna, nei lunghi percorsi, in località alpestri inaccessibili. Insomma, esso può essere considerato il fuoristrada dei quadrupedi.
Dalle nostre parti, essi venivano riprodotti in una piccola stazione di monta equina, funzionante fino alla fine degli anni Settanta. Era gestita da un simpatico signore di Ortezzano che si chiamava Ricci ed era situata in prossimità delle attuali case popolari del capoluogo. Mi sembrava un viaggio mitico ed avventuroso, quando la raggiungevamo dal mio paese attraverso il vecchio sentiero selciato che, con una passerella attraversava il fiume Tronto, proprio dove una volta c'era l’antico "Ponte di Verio".
Fino ad allora erano stati mantenuti attivi i sentieri adatti alla circolazione di questi animali da soma ed ogni giorno si potevano incontrare i muli che portavano i loro carichi. Gli ultimi mulattieri erano anche "Missionari nella Natura", infatti vivevano una spiritualità con essa nella realtà di tutti i giorni sopravvivendo con un lavoro veramente poco redditizio, un lavoro di "resistenza", antichissimo, abbinato spesso al taglio del bosco per fare legna, da loro definito " ricaccio con i muli ". Partivano spesso all'alba, appena sistemati i basti, per evitare le ore calde. Parlavano con le bestie con un: "lè" o "Aah"; "arri qua" o un’ ”arri là"; oppure un: "mo te lo daje!" . Spesso erano inflessibili: "fai lo spiritoso? Beccati stò cazzotto!" Anche se il più delle volte erano affettuosi con essi, e gli davano anche nomi di persone: "Giggetto, Rosetta, Livio, Carlina", trattandoli come un familiare perché dalla loro forza e dalla loro fatica dipendeva il lavoro di tutti i giorni.
I mulattieri erano di solito uomini duri, dal fisico asciutto e dalle mani dure, lo sguardo melanconico e di poche parole ma coccolavano le loro bestie, le pulivano quasi giornalmente con striglia e brusca e durante i lunghi percorsi li accompagnavano con canti tradizionali, oggi scomparsi, inghiottiti dal tempo. Mi ricordo che erano bellissimi, nostalgici e struggenti, pieni d'amore per la nostra terra.
Le calzature dei muli erano i "ferri di cavallo" ed i migliori mulattieri erano anche un po’ maniscalchi e sapevano effettuare la "ferratura": toglievano con le tenaglie il ferro vecchio, spianavano lo zoccolo con l’ ”incastro", tagliavano le unghie eccedenti e le grattavano con la raspa. Quindi applicavano il ferro nuovo inchiodandolo allo zoccolo con precauzione, per poi tagliare con le tenaglie la parte eccedente del chiodo ribattendola lateralmente. Il mulo poteva trasportare oltre 100 kg di peso attraverso il bilanciamento della soma sul basto. Esso era una sella rozza e larga di legno dotata di un ' imbottitura, composto da un’armatura portante costituita da due arcioni dove erano ricavati dei fori per l’ancoraggio di corde e catene, necessarie per ancorare la soma. Era corredato da una cinghia e degli straccali per renderlo solidale alla bestia. Nel mio paese c’era un signore che li costruiva, si chiamava Flaviano, detto "lù 'mmastare". Per costruirne uno ci volevano giorni di lavoro, legno di faggio, tela, liuta, paglia, pellame e pelo di animale e molti attrezzi, quali: l'ascia, la raspa, la pialla, lo spago, il martello, la trivella. Per caricare la soma su di essi era necessario aiutarsi con una speciale forca di legno detta " caricatora ", lunga un paio di metri che nella parte finale aveva un appiglio tagliato. La base della "caricatora" si puntava nel terreno, in posizione leggermente inclinata e l'appiglio si andava ad agganciare ad una corda legata nella parte inferiore del basto. A questo punto si legava la "mezza soma" con due "jeqquere" alle ciammelle. In maniera analoga si procedeva al carico dell'altra "mezza soma". Al termine si svincolavano le "caricatore" e si facevano fare alcuni passi al mulo per riequilibrare la soma. L'esperienza insegnava che la soma si aggiusta strada facendo ed i vecchi mulattieri erano bravissimi a bilanciare la soma sul basto usando anche schiazze d'arenaria come contrappeso. Per scaricare all'opposto si slegavano prima gli "jeqquer" e infine la corda detta "susta" che faceva venire giù il carico. I muli trasportavano la legna e le fascine, le reti del fieno, le bigonce della vendemmia, i sacchi di carbone. Erano usati anche dai montanari impegnati nella cura e nella raccolta dei castagneti. Essi ripulivano le piante malate dai rami secchi, il terreno da felci, sterpi e erba alta che accuratamente rastrellati venivano bruciati o ammucchiati ai bordi dei pendii. Ad inizio ottobre, una volta maturati i ricci, battevano i rami con una pertica per farli cadere a terra, raccoglierli in ceste e ammucchiarli formando le "ricciere” cumuli di ricci coperti da terriccio e foglie.
Quando si avvicinava il "mercato di San Martino" esse venivano scoperte e si battevano i ricci essiccati con i rastrelli per far uscire le castagne. Chini a terra velocemente si riempivano i sacchi, facendo attenzione alle infide spine che si infilavano dolorosamente tra le unghie. I sacchi venivano caricati sui muli che sfilavano sui sentieri verso il paese. I nostri antichi e stretti sentieri sono stati attraversati per secoli dagli zoccoli ferrati dei muli che ne hanno marcato i solchi. Salire, scendere, risalire e riscendere ancora, all'infinito. Sulle piene, sulla terra, sui declivi erbosi, sui ciottoli, nel fango.
Mulo e mulattiere, un binomio antico, segnato dalla fatica, dal silenzio rotto solo dal rumore degli zoccoli e delle imprecazioni del conducente. Un mestiere scomodo ma affascinante che andrebbe riscoperto e rivalutato perché naturale e non inquinante.
Vittorio Camacci