Nostalgico Natale - di Vittorio Camacci
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Ormai da diversi anni si è consolidata l’usanza di accendere le luminarie quasi un mese prima delle feste natalizie. Per prima cominciano i centri commerciali, non disinteressatamente, montando giganteschi alberi di Natale illuminati da migliaia di luci colorate, poi è la volta delle amministrazioni comunali che pensano ad addobbare strade e piazze, infine la gente comune che si sbizzarrisce in mille modi, negli ultimi tempi vediamo anche panciuti Babbi Natale, a grandezza naturale, nell' atto di arrampicarsi su per le grondaie o scavalcare finestre e balconi. Tutto questo è bello e fenomenale ma cosa a che vedere con le nostre tradizioni? Babbo Natale o Santa Claus insieme all' Albero, non a caso un abete, sono tipici della tradizione culturale del nord-europa, e da qui furono esportati negli Stati Uniti, dove subirono modifiche. Ad esempio, il vescovo San Nicola che diventa Santa Claus, prima vestito di verde poi di rosso per una pubblicità di una notissima bibita multinazionale.
Tutta questa modernità, che segue le tradizioni popolari di altri paesi, non è completamente negativa ma minaccia di cancellare o sostituire la nostra tradizione autoctona e millenaria in nome del consumismo, il più pericoloso demone insidiato nel progresso. Non dimentichiamo che la nostra tradizione è il presepe che, nel nome derivante dal latino significa greppia, mangiatoia. Questa usanza ha origini antiche e risale ai riti pagani degli antichi romani. Infatti, nella Roma precristiana era molto sentito il culto dei morti, i lari, ossia i componenti dello stesso nucleo familiare che una volta passati a miglior vita venivano riprodotti in statuette di argilla o cera, chiamate "sigillum" e posizionati in piccole nicchie con il compito di proteggere i vivi della famiglia. Ogni anno in occasione del solstizio d'inverno (21 dicembre), avveniva una festa per ricordarli chiamata "Sigillaria" in cui i bambini avevano il compito di pulire e lucidare queste statuette per poi posizionarle in un paesaggio di loro fantasia, il mattino ricevevano così in premio giochi e dolciumi che i genitori facevano credere fossero portati dai cari defunti. Dopo il IV secolo i cristiani fecero loro questa tradizione mantenendo data e riti, cambiandone solo il significato religioso perché la popolazione era ancora carismaticamente legata a questa data. Nel XIII secolo, San Francesco, una notte fredda del 1223, ideò a Greccio in provincia di Rieti il presepe vivente oggi particolarmente diffuso in tante località caratteristiche.
L'intuizione del mirabile Santo di Assisi, che negli anni precedenti aveva cercato di compiere il suo destino in Palestina, fu quella che non era essenziale andare a morire doveva Gesù era nato ma far rinascere il Salvatore là dove noi viviamo. Così creò a tutti gli effetti una scena teatrale per far rivivere quello che viene raccontato in parte nel vangelo di Luca, in parte in quello di Marco ed anche nel vangelo apocrifo armeno dell'infanzia, vale a dire la scena della natività. Infatti presepio significa proprio questo "presepes" cioè stare davanti ad una mangiatoia, come si narra nel vangelo di Luca, poiché non vi era posto altrove Maria fa nascere il Figlio di Dio nella mangiatoia, incarnando l'infinito in un luogo semplice ed umile. Comunque, fu il Concilio di Trento nel XVI secolo ad incentivare ufficialmente la pratica del presepe ed essa così si tramandò nel tempo fino ad arrivare ai nostri giorni. Il Natale della mia infanzia era molto diverso da quello attuale, complice soprattutto la semplice povertà in cui il mio paese viveva allora. Il nostro parroco ci istruiva sull'imminente nascita del Re dei Re, che sarebbe avvenuta in una grotta per portare la pace nel mondo. Così non ci faceva litigare durante i giochi all'aperto, non ci faceva fare i dispetti alle "femmine" e soprattutto, e questa era la cosa più difficile, ci frenava dal far sparare troppi "raudi" o "castagnol" in ogni dove. Allora, per ripiego, ci dedicavamo ad una cosa ben più importante, andavamo nei boschi di castagno a cercare muschio e scorze di legno per fare il presepe della chiesa e quello delle nostre case, sempre presente sopra i coperchi delle vecchie cassapanche. Battevamo palmo a palmo i grossi massi d'arenaria delle "Pianelle" e delle "Martitanze", nelle zone più ombrose, per cercare quello più soffice ed alto, che si sarebbe mantenuto verde più a lungo. Per fare il fiume usavamo la carta stagnola (di alluminio) che di solito ricavavamo dai vecchi incarti di dolciumi. Con i sacchetti vuoti, color marroncino, della spesa, opportunamente spiegazzati con le mani, si modellavano le rocce che un poco di farina bianca trasformava in cime innevate, popolate di branchi di pecore di gesso. Le stradine venivano fatte con la sabbia ed il brecciolino che rubavamo dai mucchi lasciati dagli spazzini comunali ai bordi delle salite del paese (veniva usato a badilate per rendere il manto stradale meno scivoloso in caso di neve e ghiaccio). La grotta era ricavata con le vecchie scorze degli alberi, la stella cometa si faceva con il cartone colorato d'oro. Le statuine più antiche erano fatte di gesso colorato, qualcuno aveva anche preziosi pezzi in terracotta, tenuti con la massima attenzione da decenni, poi arrivarono i "pezzi" in plastica dura che si acquistavano in negozio al prezzo di tanti piccoli, faticosi risparmi. I più costosi erano i Re Magi che i più poveri allineavano appiedati mentre i più ricchi fornivano di cavalli e cammello.
La notte della Vigilia si passava in casa, si mangiava un menù tradizionale: "frittiglie" farciti di broccoli e baccalà, zuppa di lenticchie con un filo d'olio, tortellini in brodo, pesce, frutta secca, arance e panettone. Dopo la cena si giocava a tombola mentre i più grandi bevevano punch al mandarino fatto scaldare a bagnomaria sopra una teglia posta sulla stufa economica. A mezzanotte si andava a messa ed appena tornati a casa facevamo a gara per posizionare il Bambinello nella mangiatoia. Nei giorni successivi aspettavamo spasmodicamente l'arrivo dell'Anno Nuovo e soprattutto quello della Befana. Ricordo con struggente nostalgia che contavo impaziente i giorni che mancavano alla notte del sei gennaio, sapevo benissimo che non ero uno "stinco di santo" e che per questo la "Vecchia" non sarebbe stata generosa nei miei confronti. Mettevo comunque una calza di lana appesa al camino ed il mattino ci trovavo inevitabilmente qualche mandarino, delle caramelle, torroni duri come pietre, cioccolata e carbone vero per le mie mascalzonate. Erano anni difficili, gli anni dell’”austerity", niente consumismo, niente usa e getta, niente ipermercati, niente business, insomma niente di niente ma tanta umiltà e forse umanità, valori persi per sempre. Io rimpiango quel Natale, la festa più importante della cristianità, vissuta tradizionalmente nell'amicizia e nella semplicità, sentimenti che purtroppo oggi abbiamo perso nella frenesia dei falsi miti da raggiungere.
Vittorio Camacci
Il Paradiso perduto - di Vittorio Camacci
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IL PARADISO PERDUTO
E se parlo di paradiso
allora sto parlando dei miei amati monti
li porto sempre nascosti nel mio cuore
che nessun altro sapesse tranne me
così non riescono a rubarmeli.
Quando la vita mi mette in scacco
traccio i loro profili nella mente
sento il profumo del bosco nel fazzoletto
canticchio il loro inno sotto il respiro.
Quando lo stress mi aggredisce
svuoto le tasche dei miei ricordi sul tavolo
le cime ardite, i verdi pascoli, il formaggio fresco.
Li faccio risplendere come speranza del mattino
e continuo a sognarli fino a che non dormo.
Vittorio Camacci
Sembra di essere in un mondo alieno, eppure siamo nel cuore dell'Italia, al centro di quattro regioni: Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo, tra il Parco Nazionale dei Monti Sibillini e quello del Gran Sasso Monti della Laga, divisi dalla Valle del Tronto, dove il "foliage" giallo, rosso, marrone, arancio, e mille toni di verde, in particolare faggete e castagneti, oltre che del bosco ceduo, in questo periodo più che mai offre uno spettacolo naturale unico nel suo genere. Tenendo come punto base il Comune di Arquata del Tronto, unico in Europa ad avere il territorio compreso all'interno di due parchi nazionali, le gole, le forre, le grotte ed i monti circostanti rappresentano il paradiso per gli amanti del trekking e del forest bathing. La nostra area è ancora fuori dai circuiti turistici più battuti, eppure abbiamo un ecosistema vario e selvaggio che ne fanno il contesto ideale per riconnettersi con la natura. Specialmente adesso, con la pandemia che sta riprendendo vigore, tante persone hanno risvegliato il bisogno di staccare la spina dal contesto urbano e ritornare alla Natura. Andare sui nostri sentieri in maniera consapevole e coltivando il silenzio, porta di per sé cultura ed un ritrovato equilibrio psico-fisico. Se non si va in silenzio, nei contesti naturali, si perde tutto lo spirito profondo di questa esperienza. Non dimentichiamo, anche, che l’aspetto visivo della natura, di per sé concilia l'indirizzo della nostra mente e diventa un veicolo per ascoltarci interiormente. Avventurarsi nei percorsi del nostro angolo di paradiso è affascinante. Animali che pascolano allo stato brado, tantissime varietà di flora e fauna selvatica, una moltitudine di biodiversità. Non parliamo poi della qualità dell’aria oltre che della purezza e della freschezza di decine e decine di fonti e sorgenti, che fanno dei nostri monti la palestra ideale per il trekking, le camminate di respirazione consapevole nel bosco e la meditazione a contatto con gli elementi naturali. Sentendo parlare di "forest bathing", letteralmente tradotto in "bagno nella foresta", la nostra mente può figurarsi uno specchio d' acqua tra gli alberi, un piccolo lago incontaminato in cui immergerci, ma non è proprio così, il forest bathing è un'attività in grado di rigenerarci mentalmente e fisicamente, un'esperienza a stretto contatto con la natura in grado di regalarci molti effetti benefici. È una pratica nata in Giappone che consiste semplicemente nel passeggiare nei boschi. un bagno nella foresta, nella natura, durante il quale perdersi nell'aria pulita all' ombra degli alberi. Tale immersione è un’esperienza positiva sia per la mente che per il corpo. Stare a contatto con le piante ha un effetto disintossicante potentissimo. Si diventa meno stressati, meno ostili e meno depressi, oltre a rafforzare il nostro sistema immunitario. Insomma, stare nella foresta il più a lungo possibile ci fa star bene. E allora, cosa aspettate venite a divertirvi sui nostri percorsi e godetevi il nostro meraviglioso "foliage" autunnale!
Vittorio Camacci
foto "Arquata Potest"
C'era una volta la vendemmia - di Vittorio Camacci
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Foto di Archimede Franchi
La vendemmia era uno dei momenti più gioiosi dell’anno, ma anche uno dei più faticosi ed intensi. Il duro lavoro si superava con l’allegria dei canti, delle risate e delle stornellate, trasformandolo in un momento di socializzazione e quasi di evasione, in quanto si usciva dall' atavico isolamento familiare per lavorare in sintonia al fianco di altre persone del paese. Preludio alla raccolta dei grappoli maturi, erano i lavori di pulizia delle vasche di pigiatura, dei tini e delle botti, dei torchi, delle cantine. Per questo si udiva spesso il rumore dei mazzuoli sui cerchi e sulle doghe dei tini o delle botti che avevano subito i danni del tempo e dell’uso.
Nelle vigne le ceste si colmavano della preziosa uva pecorino che andava a riempire le "bigonce" caricate sui muli. Questi le trasportavano, attraverso i sentieri interpoderali, verso le cantine in paese in un continuo via, vai. L'uva pigiata, rigorosamente a piedi nudi nelle vasche, oltre che nelle botti, finiva in parte a bollire in caldaie di rame, annerite dall'uso, mentre le persone più anziane ed esperte intingevano tozzi di pane in esse, per assaggiare il mosto in ebollizione ed esprimere un incontestabile parere sulla sua qualità. Tutto questo aveva un culmine nel giorno di San Martino, quando finalmente si assaggiava il vino nuovo accompagnandolo con le castagne arrosto.
In passato essa era una festa particolarmente importante, una sorta di festa iniziatica, una specie di "Capodanno" perché si diceva cha a "A San Martì ogni mosto diventa vì!" Non dimentichiamo che il vino allora era l'oblio dei poveri. Con il mosto si facevano anche dolci legati al periodo, speciali conserve di frutta come la "sapa": pezzi di mela cotti con mosto denso e dolce. Era tradizione, inoltre, produrre durante la vendemmia l'"acquaticcio", una bevanda leggera che derivava dall'acqua di fonte passata attraverso le vinacce. Bisognava consumarlo subito, entro tre giorni, perché non era conservabile" l'acquaticce du giurne è bune, lu terze jie triste!" In quasi tutti i "bufirie" (balconi con copertura) si appendevano alle travi grappoli d'uva a coppie, preventivamente scelti con cura, per farli essiccare al sole autunnale, utilizzandoli poi a Natale nella creazione dei dolci legati alla festività.
Mio nonno era un grande cultore della tradizione vitivinicola arquatana e mi raccontava sempre una storiella sulla creazione del vino nelle nostre zone: << Il Dio Bacco, viaggiando in Arabia, vide una vite bellissima e la portò con sé introducendola in un osso di uccello, poi quando questo divenne insufficiente, la mise prima in un osso di leone e poi dentro il cranio di un asino. Nel suo lungo viaggio per il mondo passò anche per Arquata e piantò anche qui un arbusto unitamente alle ossa. La pianta crebbe rapidamente e si moltiplicò dando meravigliosi grappoli che i nostri antichi avi spremettero ottenendo un buon vino, ottimo da bere in compagnia. Ecco perché, gli arquatani, quando cominciano a bere vino prima diventano loquaci come uccelli, poi forti come leoni ed infine esagerando diventano simili agli asini >>. Caro nonno, oggi questa tua teoria favolistica è tutta da riscrivere perché gli arquatani moderni bevono principalmente birra, non la birra-alimento sumerica di 4.000 anni fa, ma quella moderna prodotta dai "giganti" dell'industria birraia e ormai qui si usa dire che: "Chi beve birra, campa cent'anni ...da somaro" facendo rigirare i nostri cari defunti nella tomba. Noi non disperiamo e crediamo che fino a quando ci saranno delle viti nelle nostre terre la speranza non morirà, vero nonno?
Vittorio Camacci
Le iscrizioni medievali e rinascimentali ad Ascoli
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In occasione della giornata nazionale “Lo sport che vogliamo”
Domenica 18 ottobre torna l’abbinamento tra promozione della salute e cultura
ASCOLI – Domenica 18 ottobre torna l’abbinamento tra sport e cultura che l’iniziativa “Le iscrizioni medievali e rinascimentali ad Ascoli” in occasione della Giornata nazionale “Lo sport che vogliamo” dell’U.S. Acli.
Dopo il successo delle camminate serali estive, che hanno coinvolto migliaia di persone, è in programma per domenica 18 (ore 9,30 partenza da Piazza Arringo) una nuova camminata culturale con guida turistica.
Si tratta di una iniziativa che promuove la conoscenza del territorio e valorizza dal punto di vista culturale ancora di più la città di Ascoli.
L’altra finalità dell’iniziativa è quella di incrementare le opportunità di movimento per i cittadini e la manifestazione aderisce ai vari eventi dedicati in tutta Italia alla prevenzione contro il cancro al seno che si svolgono da sempre proprio nel mese di ottobre.
Il tumore al seno è la neoplasia più frequente nel sesso femminile. L’attività fisica può ostacolare la formazione del tumore. Le donne che svolgono regolarmente sport presentano una riduzione del rischio di ammalarsi di circa il 15-20%. Proprio per questo motivo tra i partner dell’iniziativa di domenica 18 c’è anche la Lega italiana lotta ai tumori che presenterà la campagna “Lilt for women – Campagna nastro rosa 2020”.
La partecipazione alla manifestazione è gratuita ma occorre preiscriversi esclusivamente con un messaggio al numero 3939365509, indicando nome e cognome di chi partecipa e la data di svolgimento, in quanto saranno applicati il protocollo e le linee guida dell’U.S. Acli nazionale di contenimento Covid2019. L’utilizzo della mascherina è obbligatorio.
L’iniziativa di domenica 18 ottobre rientra nel programma della giornata nazionale “Lo sport che vogliamo” che si svolge in 16 regioni italiane e che è finalizzata a consolidare reti e strategie per la massima diffusione della pratica sportiva quale strumento di crescita sociale e culturale del territorio e dei cittadini.
Alla realizzazione della manifestazione hanno collaborato l’amministrazione comunale di Ascoli Piceno, Fondazione Carisap e Qualis Lab.
Ulteriori informazioni sull’iniziativa si possono ottenere sul sito www.usaclimarche.com o sulla pagina facebook Unione Sportiva Acli Marche.