fotoUn tempo bastava poco per sentirsi felici, qui. Un pranzo sotto una pergola, la legna che ardeva nella stufa, le risate dentro una stalla durante una nevicata. Era una felicità ruvida, mai ostentata, fatta di silenzi condivisi e mani callose. Poi è arrivato il terremoto e con lui una seconda scossa: quella morale. La terra ha tremato, ma ha tremato di più il cuore delle persone quando hanno visto cosa stava accadendo dopo. Non si è ricostruito per vivere meglio. Si è ricostruito per guadagnare. Per prendere appalti, aprire fondazioni, moltiplicare studi tecnici. E chi non era del giro, chi non aveva amicizie nei posti giusti, è rimasto fermo, a guardare i camion salire e scendere, mentre la propria casa restava un cumulo di pietre. Io ci sono rimasto, per mia madre, che non voleva andarsene. Diceva che si stava bene solo qui, anche sotto una tettoia di truciolato e carta catramata. Per un po’ le ho creduto. Ma adesso, ogni mattina che mi alzo in questa SAE che odora ancora d'impregnante, mi chiedo se abbia avuto ragione lei o il tempo. C’è chi ha fatto fortuna e oggi ti parla dei borghi come se fossero loro. Organizzano festival, comprano ruderi e li trasformano in dimore di charme. Dicono di voler salvare l’anima dei luoghi, ma a me pare che ci abbiano tolto la nostra. Noi, quelli veri, siamo diventati comparse. C’è un dolore che non si dice: quello di sentirsi intrusi a casa propria. Di vedere che l’unica economia che gira è quella dei contributi, dei convegni, dei bandi. Di capire che se vuoi vivere qui davvero, coltivare la tua terra, allevare due pecore, nessuno ti aiuta. Nessuno ti vede. A volte, camminando nei boschi, provo a ricordare com’era prima. Ma i suoni sono cambiati anche nei paesi. Non ci sono più le voci dei vecchi che raccontavano, né i bambini che correvano tra i muretti. Solo vento e qualche voce venuta da lontano, che chiama il proprio cane con un accento che non conosco. La felicità? È diventata una parola da brochure. Qualcosa che usano gli altri per vendere la nostra nostalgia. Per noi che siamo rimasti è rimasto solo il senso di colpa: per non essere andati via o per non aver fatto abbastanza. Allora vivo alla giornata, ora che non c'è più mia madre che dorme nell'altra stanza, col suo respiro che a volte sembrava più forte del mio. Con un orto che produce meno di prima. Con lo sguardo che ogni tanto si posa sul colle, dove c’era la casa. È rimasta solo la malinconia e una strana, testarda, inutile fedeltà a un luogo che ha smesso di appartenermi. Quest'inverno è finita anche questa attesa, da quando accompagnai mia madre nell'ultimo viaggio. Quel giorno ho capito che non ho più scuse. Posso andarmene anch’io, senza voltarmi. Forse in silenzio o forse urlando a tutti che si tenessero pure le loro case nuove, le panchine di design, le sagre gourmet. A me non serve più niente. Nemmeno la speranza. Perché qui, di umano, è rimasto solo il dolore e anche quello ormai si vende male.

Vittorio Camacci

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