Nel cuore dell’Alta Valle del Garrafo, tra i borghi di Pito, Pozza e Umito, il Carnevale non era solo un evento, ma un rito antico, un frammento di paganesimo sopravvissuto tra le gole, i castagneti e le faggete della Laga. Gli Zanni, figli bastardi di Arlecchino e Pulcinella, riemergevano ogni febbraio dalle pieghe della montagna, portando con sé la memoria di un mondo capovolto.
Negli ultimi anni, però, il Carnevale non sembrava voler arrivare. Le maschere giacevano dimenticate nei bauli, le osterie erano chiuse e le voci si spegnevano nel silenzio di un inverno senza risate. Erano stati giorni di paura e di bando: la gente parlava di febbri improvvise, di ordini calati dall’alto come editti del re, di una Quaresima imposta ancor prima che il Carnevale potesse accendersi.
Ma gli Zanni di Pozza non erano gente da arrendersi. «Se il mondo non vuole più il Carnevale, sarà il Carnevale a prendere il mondo!» aveva tuonato il vecchio Ascenzio, l’ultimo rimasto a ricordare i tempi in cui gli uomini ridevano senza paura. Così, la sera, si radunavano e continuavano a costruire i cappelli conici con le strisce colorate. Provavano le loro maschere con il diavolo che pareva uscire dall’Inferno di Dante.
«O facciamo ridere i vivi, o torniamo a far ridere i morti!» disse uno di loro, battendo una staia sul terreno gelato.
Così scesero nei paesi, nel primo pomeriggio, come una brigata di fantasmi. Bussarono alle porte, saltarono sui ballatoi, lanciando gridi e lazzi sugli usci. Un fiasco di vino a chi ne aveva bisogno, una poesia oscena incisa sulla neve per chi si credeva santo. Alcuni li videro e giurarono di aver scorto il demonio, altri si affacciarono dalle finestre e piansero dal ridere, perché era tanto tempo che non vedevano nulla di così folle e così giusto.
All’alba, il paese si svegliò con un fremito nuovo. Qualcuno aveva riaperto l’osteria, qualcuno suonava un organetto, e persino il vescovo dovette ammettere che forse, dopo tanta paura, il tempo del Carnevale doveva tornare.
Ma gli Zanni? Nessuno li vide più, e nessuno sapeva chi fossero. Si dice che tornassero ogni anno, quando il mondo diventava troppo triste. Altri giuravano che fossero solo un sogno, un’illusione nata dal desiderio di vivere ancora.
Solo una cosa era certa: su "Lu Piantò de Screcco' ", qualcuno aveva inciso una frase con la punta di un coltello: "Ben venga maggio e il gonfalon selvaggio".
Che ritorni, allora, Primavera dopo queste imposte quaresime che hanno voluto fare cenere dei vini e lacrime dei baci, noi attendiamo senza maschera con il volto al nuovo sole.
Vittorio Camacci