CENNI SULLA CHIESA DI SAN PIETRO MARTIRE E SUL SANTO A CUI E’ DEDICATA 

 La chiesa di San Pietro Martire sorge nel medesimo luogo dove sorgeva una pre-esistente chiesa dedicata a San Domenico, di modeste dimensioni e di stile romanico, distrutta da un incendio intorno al 1255-1257. La nuova chiesa fu iniziata nel 1280 e nel 1332 dovevano essere sicuramente terminate le facciate laterali. Un'iscrizione, proprio nella facciata nord, ci rimanda a quella data, quando era papa Giovanni XXII:

 

Anno D.ni 1332 in Aesculo -Sancti Petri Martyris Gubernatione D.ni Joannis Papae XXII.

 

Oggi la lapide non è più visibile, perchè è stata tolta, ma rimane vuota, sulla facciata, la parte che occupava.

 

La chiesa fu portata a termine in tutte le sue parti soltanto nella prima metà del secolo XV; ma assunse l'aspetto attuale alla metà del XVI secolo.

 

Pietro da Verona, a cui è dedicata la Chiesa , nacque da genitori eretici e manichei.

 

A soli sette anni fu però in grado di discernere gli insegnamenti della dottrina cattolica, distinguendoli da quelli del manicheismo familiare, con la proclamazione del Dio creatore del cielo e della terra e non soltanto delle cose invisibili.

 

Avviato agli studi di "grammatica" e di "humanae litterae" a Bologna prese a frequentare con assiduità la chiesa dei frati predicatori e, a sedici anni, fu vestito, dallo stesso san Domenico, con l'abito dei domenicani.

 

Ordinato sacerdote gli fu comandato dai Superiori "che uscisse in campagna a debellare l'inferno, a fugare dal mondo i vitj e a confondere l'heresia....".

 

Il suo predicare era così pieno di grazia e spirito che anche le più ampie chiese non potevano contenere il popolo accorso ad ascoltarlo in Romagna, Toscana e Lombardia. Ebbe anche il dono della profezia e le sue predizioni furono annoverate accanto ai suoi miracoli rivolti prevalentemente a guarigioni.

 

La sua fama sempre più venerabile suscitò l'insofferenza del "principe delle tenebre che armò contro quel campione di Cristo innumerevoli falangi e, congiurando a suo danno, gli mosse una crudelissima guerra persino fra i suoi confratelli". Accusato da questi di accogliere nella sua cella delle donne di notte, che altre non erano che sante vergini e martiri venute dal cielo a favorirlo, fu mandato dal priore a Jesi, nella marca anconetana e, dopochè fu riconosciuto innocente, continuò a diffondere conversioni tramite prediche e dispute contro gli eretici sia nella marca anconetana che in Lombardia, tanto che papa Innocenzo IV lo proclamò "Inquisitore ufficiale della fede". Sicuramente in questo periodo predicò anche ad Ascoli.

 

Gli eretici decisero pertanto di farlo morire, assoldando assassini per pochi denari. Quattordici giorni prima di morire, la domenica delle Palme, mentre predicava a Milano annunciò la sua prossima fine ma, rivolto ai suoi assassini, li ammonì che comunque avrebbe continuato a combatterli anche da morto.

 

Mentre si recava a Milano di notte, tra l'ottava di Pasqua dell'anno 1252, fu colpito in un agguato ma riuscì, prima di spirare, a scrivere con il proprio sangue su una pietra la professione della sua fede "nel Signore del cielo e della terra".

 

Fu canonizzato a Perugia, da papa Innocenzo IV, il 25 marzo 1253, soltanto un anno dopo la morte e fu comandato alla cristianità di celebrarne la festa il 29 aprile.

 

 

 

 

 

LA RELIQUIA DELLA SACRA SPINA 

 

 

 

La storia della reliquia della Sacra Corona di Spine inizia dalla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo e si sviluppa attraverso i secoli e numerose traslazioni. Si possono considerare fondamentalmente cinque periodi:

 

 

 

 

Dalla Passione di N.S. sino al 1092, quando la Sacra Corona rimane a Gerusalemme

 

 

 

E' opinione che la Santa Corona di Spine, che trafisse il capo di Nostro Signore sia stata riposta insieme ai chiodi nel Sepolcro, come era in uso presso gli Ebrei che, con il cadavere, interravano tutto ciò che era servito a giustiziare il condannato. Dopo la Resurrezione quelle sacre reliquie, insieme alla Sindone, vennero raccolte dalle pie donne.

 

Documenti dei primi tre secoli non se ne hanno. Soltanto dal IV secolo ci sono prove documentarie che assicurano che la Santa Corona rimane a Gerusalemme probabilmente fino al 1092.

 

 

 

 Dal 1092  al 1238 quando la Sacra Corona viene trasportata a Costantinopoli e vi rimane

 

 

 

 

 

Nel 1092 l'imperatore bizantino Alessio I, della dinastia dei Comneni, in una lettera a Roberto di Fiandra, fra le reliquie allora conservate a Costantinopoli cita la Corona di Spine; se ne deduce che in quella data, ma probabilmente anche prima, la Sacra Corona stava a Costantinopoli.

 

 

 

Dal 1238 al 1791 quando la sacra Corona viene trasportata a Parigi

 

 

 

La quarta crociata, che durò dal 1202 al 1204, vide le forze cristiane deviare dalla meta assegnata da papa Innocenzo III (liberazione del Santo Sepolcro) e porsi al servizio di concreti interessi politici e soprattutto commerciali. Non Gerusalemme, ma Costantinopoli fu assalita e conquistata e fu creato l'impero latino d'Oriente su cui fu insediato un francese, Baldovino di Fiandra. Nel 1238 Baldovino si recò in Francia dal cugino, re Luigi IX, detto il Santo, per chiedere aiuto contro i nemici del suo impero.

 

Mentre stava in Francia venne a sapere che suoi ministri stavano trattando la vendita della Sacra Corona ai Veneziani. Baldovino convinse Luigi IX a riscattare la Sacra Corona dai Veneziani, che nel frattempo l'avevano depositata nella Basilica di San Marco.

 

Luigi IX riscattò la Corona e modificò la cappella di Palazzo reale per accogliere la Sacra reliquia.

 

La nuova cappella, detta Sainte Chapelle, è un mirabile esempio di gotico rayonnant e si trova nell'isola della Senna.

 

 

 

 

 

 

Dal 1791 al 1804 quando. a causa dei governi rivoluzionari e giacobini. si resero necessari diversi trasferimenti:Abbazia di Saint Denis, Biblioteca Nazionale di Parigi

 

 

 

Nel 1791 il Municipio rivoluzionario di Parigi fece mettere i sigilli al tesoro della Sainte Chapelle. Luigi XVI riuscì comunque a sottrarre alcune sante reliquie e, con esse, la Corona , che fece trasportare nella Abbazia di Saint Denis. Nel novembre 1793 (Luigi XVI era stato decapitato il 21 gennaio) il municipio di Saint Denis le rinviò a Parigi, per farne omaggio alla Convenzione, qualificandole come oggetti adatti ad alimentare la superstizione dei popoli. Nel 1794 la reliquia fu consegnata alla Biblioteca Nazionale dove rimase per dieci anni.

 

 

 

Dal 1804 ai giorni nostri presso la cattedrale di Notre Dame

 

 

 

Nel 1804 l'arcivescovo di Parigi fece richiesta della reliquia al Ministro dei culti che la rilasciò nell'ottobre dello stesso anno.

 

Fu costruito un ricco reliquiario dove, dal 1806 ad oggi, rimane il solo serto privo di spine che viene esposto il giorno del Venerdì Santo.

 

 

 

Dalla Sacra Corona provengono le spine. Queste sono segnalate in diverse città del mondo dove sono arrivate nei modi più disparati.

 

In un lavoro del 1927, La Sainte Couronne d'èpines a Notre-Dame de Paris, l'autore, De Mèly, elenca circa 130 località del mondo in cui è presente almeno una spina della Sacra Corona.

 

Fra queste località è citata Ascoli Piceno e, nella provincia, è segnalata un'altra spina precisamente a Fermo.

 

 

 

LA SACRA SPINA DI SAN PIETRO MARTIRE (ASCOLI PICENO)

 

 

 

L'origine della spina ascolana é da ricercarsi in uno scambio di reliquie fra Filippo IV detto il Bello, nipote di Luigi IX, ed il suo confessore Padre Francesco de Sarlis, domenicano. Il re di Francia donò, nel 1290, al confessore la spina, mentre il confessore donò al re una reliquia di San Domenico (un dente) che si trovava ad Ascoli. Questo fatto é raccontato in una pergamena del secolo XVI, copia di un'altra più antica, che si conserva dentro la custodia del reliquiario, una splendida arca in noce. Dalla lettura completa della pergamena si evince che al re di Francia la Sacra Spina fu consegnata dai Veneziani e quando giunse ad Ascoli (1290) la nuova chiesa di San Pietro Martire ancora non era stata terminata. Nel 1290 era Pontefice da due anni Nicolò IV, Fra Girolamo Masci da Lisciano, che rimase al soglio pontificio dal 1288 al 1292.

 

Anche la spina di Fermo ha analoghe origini regali in quanto fu donata da Filippo III (detto l'Ardito), padre di Filippo il Bello, ad un padre agostiniano di Sant'Elpidio a Mare. Si può soltanto immaginare quanto interesse e quanta devozione possa aver suscitato l'arrivo di questa reliquia ad Ascoli.

 

Ce ne resta una attestazione, anche se di non facile interpretazione, in una lapide posta a sinistra della porta laterale della chiesa, per intenderci la porta verso piazza Ventidio Basso. Questo pesante portale, di ordine dorico, fu aperto nel 1523 su probabile disegno di Cola dell'Amatrice; ebbene la lapide rimane chiaramente sotto il portale ed e quindi sicuramente di epoca precedente.

 

 

 

INTERPRETAZIONE DELL’ISCRIZIONE 

 

 

 

L'interpretazione dell'iscrizione non è affatto semplice, in quanto la lapide appare corrosa e, probabilmente, rovinata quando fu costruito il nuovo portale. E' quindi difficile dare un senso compiuto alla frase riportata.

 

Certo e che si parla di una indulgenza di 501 anni concessa, probabilmente ai defunti, durante una epidemia; quale non è facile determinare. Non è escluso però che si tratti della famosa peste del 1348 che, come e noto, infierì terribilmente anche nelle nostre regioni.

 

Mons. Francesco Antonio Marcucci, fondatore della congregazione "Pie Operaie della Immacolata Concezione", nel 1758 ha dato una lettura dell'epigrafe alquanto personale:

 

Noverint. supple, Christi fideles omnes, qui inspecturi erunt Tabulam hanc, quod indulgentia restituta Spinae Reliquiam visitantibus, est LVII annorum pro quolibet die et quotidie. Ideo ascendit ad CCCCCLI (supple tres alios) annos mense omni (licet revera sint 670 anni).

 

Anno quo posita tabula haec, MCCCXXXII.

 

(Le parole sottolineate ed in grassetto sono quelle che oggi a mala pena si riescono a leggere, le altre sono una libera interpretazione del Marcucci). In sostanza il Marcucci afferma che coloro che visiteranno la reliquia della Sacra Spina beneficeranno di una indulgenza di ben 670 anni e fissa la datazione della lapide al 1332.

 

Ciò che appare sicuramente arbitrario e il conteggio degli anni di indulgenza così come l'anno finale che il Marcucci tende (aggiungendo delle cifre) a far coincidere con quello della lapide scomparsa, che fissava il termine della costruzione della Chiesa.

 

 

 

LE MANIFESTAZIONI RELIGIOSE COLLEGATE ALLA RELIQUIA 

 

 

 

Una volta all'anno, nella Domenica tra l'ottava dell'Ascensione, i canonici della cattedrale, dopo terza, si recavano in S. Pietro Martire dove, presente il Magistrato Comunale, veniva esposta la S. Spina e, dopo la Santa Messa , la si portava in processione per la città.

 

Ciò è testimoniato dai dettagliati e rigorosi verbali redatti sia in Italiano che in Latino dalle autorità civili ed ecclesiastiche ed appartenenti alla metà del secolo scorso (sia prima che dopo l'unità d'ltalia), con riferimento costante ad una procedura ormai codificata dall'uso da diversi secoli:

 

 

 

"insignis S. Spinae reliquia. . . a pluribus saeculis in apposita urna asservatur. . . "

 

 

 

"scilicet sub horam circiter in decima antimeridiana praelaudatum Municipium et Rev. Mum. Capitolum ad enunciatum templum se trasferunt et. . . utroque presente cappellanus designatus aperit urnam. . . "

 

 

 

"Noi sottoscritti facciamo fede indubitata che la Reliquia della Santa Spina si esponga a San Pietro Martire, in un altarino preparato in Sacrestia, presenti il Magistrato ed il Capitolo della Cattedrale...e che così si è sempre costumato nelle diverse epoche".

 

 

 

A proposito del Capitolo della Cattedrale si precisa più volte inoltre che:

 

 

 

"in mancanza del Vescovo ha sempre funzionato I'Arcidiacono e, questo impedito, ha funzione il Canonico Decano".

 

 

 

La funzione della Santa Spina era del tutto uguale a quella che si faceva in San Francesco, il tre Maggio, per onorare la reliquia della Santissima Croce, dono di Nicolò IV alla Chiesa del suo convento.

 

Entrambe le processioni erano, infatti, di antichissima istituzione e di esclusivo diritto del reverendissimo Capitolo; in entrambe le chiese infatti veniva innalzato il trono vescovile e alle due processioni partecipavano tutte le Confraternite della città.

 

 

 

In un verbale del Dicembre 1869 si legge infatti, dopo una descrizione della Esposizione della Santa Spina:

 

 

 

"il che similmente si pratica nella processione della Santissima Croce che si conserva in San Francesco"

 

 

 

Altrove si parla di "reliquie" al plurale, a proposito dell'allestimento delle due cerimonie.

 

Ultimata la processione la reliquia veniva esposta nell'altare maggiore e lì rimaneva per tutta la giornata e nella sera si svolgeva una nuova processione, meno solenne, ultimata la quale, la reliquia veniva di nuovo riposta dentro l'apposita urna. L'urna veniva chiusa da tre chiavi, due delle quali custodite dal municipio e la terza dal rettore della chiesa di S. Pietro Martire.

 

Anche la spina conservata ad Ascoli, come gran parte delle altre, manifesta arrossamenti, più o meno accentuati, nella punta, come se questa fosse bagnata da sangue vivo. Questo fenomeno si manifesterebbe nei giorni di Venerdì Santo ed, in modo particolarmente intenso, in quei Venerdì Santi che coincidono con la festività dell'Annunciazione della Vergine (ultima coincidenza nel 1932, prossima coincidenza 2005).

 

Mons. Giovanni Battista Alfano nel 1932 nella sua opera: "Sulle sante spine della Corona di Nostro Signore Gesù Cristo" ha raccolto diverse testimonianze degli eccezionali fenomeni, talvolta anche diversi dall'arrossamento, come ad esempio produzione di minuscole pianticine.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA 

 

 

 

Francesco Antonio Marcucci "Dissertazione Istorica sopra la Fondazione del Nobile Tempio di San Pietro Martire" Manoscritto 1758

 

Sacro diario Domenicano Ascoli Piceno 1869

 

Pietro Giannelli "Asculana in Piceno jurum" Roma 1870

 

Vincenzo Paoletti "Memorie Domenicane in Ascoli Piceno" Firenze 1909

 

Tucci-Mariotti "Iscrizioni medievali ascolane" Ascoli Piceno 1922

 

Giovanni Battista Alfano "Sulle Sante Spine della Corona di Nostro Signore Gesù Cristo" Napoli 1932

 

Antonio Rodilossi "Ascoli Piceno -città d'arte-" Ascoli Piceno 1983

 

Luisa ed Ercole Collazzoni

 

 

 

II Reliquiario della Sacra Spina e il suo restauro

 

 

 

La sacra spina dovette arrivare in Italia già inserita nel reliquiario a forma di angelo, in cui si trova tuttora, che ha caratteri stilistici corrispondenti ai canoni figurativi dell'arte parigina della fine del Duecento.

 

L'angelo, in argento fuso, cesellato e dorato , è raffigurato ad ali spiegate, vestito di una lunga tunica quasi interamente coperta da un morbido mantello le cui pieghe ricadono al suolo, lasciando intravedere la punta di un piede nudo. Il piccolo viso sorridente ha guance piene finemente cesellate così come i lunghi riccioli che un sottile nastro raccoglie in tre ciuffi, due ricadenti sulle orecchie ed uno sulla nuca.

 

La bellezza della piccola statua è sorprendente non solo per la grazia disinvolta della posa e la somma eleganza del panneggio, ma anche per l'altissima qualità tecnica che attesta il lavoro di un artista di primo piano, certamente individuabile fra quelli attivi nelle officine orafe reali, un lavoro che prelude, in forma preziosa e particolarmente raffinata, ai tanti angeli -portareliquie- di cui parlano gli antichi inventari, prodotti in Francia, e soprattutto a Parigi, nei primi decenni del Trecento.

 

L'angelo presenta la santa spina racchiusa in una piccola teca quadrangolare la cui cornicetta ondulata è posteriore, forse coeva al grande reliquiario in cui la preziosa microscultura venne sistemata nei primi decenni del Quattrocento. E' questo un manufatto grandioso, alto quasi un metro, e di forma assai originale, ben che rientri nella comune tipologia dei reliquiari architettonici. L'unicità dell'opera sta nella insolita struttura, composta da due edicole che si susseguono in verticale, cosa che conferisce all'oggetto una particolare leggerezza e uno slancio di gusto ancora pienamente gotico.

 

ll reliquiario poggia su un piede esalobato concluso da un collarino lungo il quale, a lettere gotiche d'argento, su fondo blu, l'autore si firma: NICOLAUS AURIFEX DE CAMPLO ME FECIT

 

Al di sopra si imposta il fusto sempre a sezione esagonale e ornato da placchette in smalto traslucido (purtroppo completamente caduto) con uccelli fantastici dal lungo collo e dalle ali spiegate.

 

Al centro del fusto, invece del consueto nodo, costituito da un elemento pieno di forma più o meno sferica, troviamo l'ardito inserimento di un'esilissima edicola sostenuta da sei slanciate colonnine tortili, all'interno della quale è rappresentata la Crocifissione :

 

il Crocifisso, sulla naturalistica croce del tipo lignum vitae e i due dolenti: la Madonna e San Giovanni Evangelista. Si tratta di sculture in miniatura che, sia pure nella stilizzazione imposta dalle ridottissime dimensioni, riescono ad esprimere un senso di alta drammaticità. L'edicoletta è conclusa da archetti a sesto ribassato, includenti un sottarco trilobato, alternati a pinnacoli. Al fiorito decoro di questo elemento di gusto molto veneziano, si oppone la più sobria scultura architettonica dell'edicola maggiore, entro cui è posto l'angelo reliquiario tardo-duecentesco. Anche in questo caso si tratta di una scultura architettonica a pianta esagonale, in cui gli elementi di sostegno sono rappresentati da esilissimi pilastri lungo i quali si aprono due bifore, la cui forma, molto allungata, accompagna lo slancio verticale dei pilastrini interrotti, al centro, da un piccolo cornicione con un fregio a rosette che ritroviamo nel bordo inferiore ed in quello superiore.

 

Sopra quest'ultimo si imposta la terminazione dell'edicola formata da sei grandi placchette in smalto traslucido, racchiuse entro cornici ad arco ribassato ed alternate a pinnacoli, già ricoperti di smalto traslucido blu, ora perduto. Le placchette presentano cinque immagini, a mezza figura: la Madonna con il Bambino, San Domenico, San Pietro Martire, San Tommaso d' Aquino, San Giovanni Battista; l'ultima invece reca un cartiglio entro il quale, a lettere gotiche d'argento su smalto rosso, leggiamo la dedica del committente: HOC OPUS FECIT FIERI VANNES NICOLAI DE PORCIA PRO SUA ANIMA.

 

Tutte le figure, compreso il cartiglio, risaltano su un fondo blu dal contorno mistilineo, evidenziato da uno sfondo rosso; lo smalto blu attorno alle figure, inoltre, e arricchito da rosette gialle, mentre ai lati dei tre santi domenicani sono presenti le iniziali dei rispettivi nomi.

 

L'edicola è conclusa da una copertura piramidale le cui facce sono ornate da decori vegetali incisi su un fondo graffito. Al culmine è posto un capitello corinzio, sopra il quale una corolla di sei petali sostiene la basetta esagonale, su cui poggia l'angelo che conclude il reliquiario.

 

Con la statica eleganza della figuretta angelica francese contrasta vivacemente il piglio guerriero dell'angelo quattrocentesco, avvolto in uno spettacolare abito dal ricco e mosso panneggio, in atto di brandire una spada con la quale protegge simbolicamente la città di Ascoli di cui sorregge l'emblema. Le due mediocri ali, ritagliate nella lamina metallica, sono, probabilmente, opera di restauro.

 

Sotto la statuetta, in cima alla cuspide che conclude l'edicola sottostante, sono infilate una corona di spine d'argento e, poco sopra, una preziosa e fragile corona regale, formata da sei stilizzate rosette dal cuore di corallo, alternate ad archetti dal centro dei quali pende una piccola perla: è evidente il simbolico riferimento alla preziosissima reliquia della Santa Spina, custodita nel reliquiario, come anche il collegamento tra le due diverse corone, alludenti l'una al sacrificio, l'altra alla regalità di Gesù Cristo.

La firma dell'artefice ed il nome del committente, che compaiono tra gli smalti del manufatto, non hanno permesso ai rari studiosi che si sono occupati di questo complesso oggetto di stabilire con certezza né le circostanze, né l'epoca della sua realizzazione.

Nessun documento è finora emerso, infatti, per fare luce su Vanni di Nicola da Porchia, il misterioso committente, forse appartenente alla famiglia Nobili, stabilitasi in Ascoli (dal vicino castello di Porchia) nella prima metà del Quattrocento; ne si sa nulla di Nicola da Campli, l'orafo che firma il reliquiario, e di cui non si conosce alcuna altra opera, ma che lo studioso Emidio Luzi, alla fine dell'Ottocento, giudica "un migliore scolaro di Nicola da Guardiagrele".

Non sappiamo su quale base documentaria sia stata fatta questa affermazione, ma certamente, anche solo su deduzioni stilistiche, si può sostenere come questo reliquiario mostri evidenti caratteri tipici dell'oreficeria abruzzese dei primi anni del Quattrocento.

Infatti, un confronto con opere del grande orafo guardiese evidenzia piccoli, ma significativi elementi comuni, che permettono di ritenere Nicola da Campli un seguace, se non un diretto collaboratore del Maestro, e comunque al corrente di certi stilemi decorativi della sua bottega: si notino, in particolare, il bordo a rosette che profila tutte le cornicette del reliquiario ascolano e che si ritrova, identico, nel Tabernacolo di Francavilla a Mare (1413), che è anche ugualmente culminato da un Arcangelo armato con una spada sguainata, così come la basetta a giorno su cui poggia l'Angelo di Ascoli, simile a quella che sorregge l'Arcangelo Michele nel Tabernacolo di Atessa (1418). A differenza di queste microsculture di Nicola da Guardiagrele, caratterizzate da una decisa uniformità stilistica, l'esempio ascolano presenta una straordinaria accuratezza nel ricercatissimo panneggio dell'abito con cui contrastano sia le piatte ali in lamina metallica, sia l'arcana fissità del volto, dagli occhi fortemente ravvicinati, il cui sommario modellato riconduce ai modelli figurativi delle croci arcaiche abruzzesi.

Di grande interesse sono gli smalti che ornano il reliquiario: quelli del fusto, con i grandi uccelli fantastici di cui è purtroppo andata del tutto perduta la pasta vitrea colorata, riprendono il gusto delle droleries medievali così diffuse, anche in contesti religiosi, fin dal Trecento; anche le grandi lunette che sormontano l'edicola maggiore

dipendono da modelli trecenteschi, e di derivazione toscana, ma certamente elaborati localmente, e forse al corrente di soluzioni decorative da tempo adottate in ambito napoletano, arricchite dal raffinato apporto francese. E alla cultura d'oltralpe va forse ricondotta l'eleganza profana della piccola corona, un vero e proprio gioiello in miniatura, inserito, secondo una soluzione decorativa assolutamente originale, in cima alla cuspide del reliquiario, in voluto contrasto con la realistica semplicità della corona di spine.

Va ricordato, infine, il decisivo apporto della cultura figurativa veneta, sempre presente e determinante nella produzione artistica delle regioni adriatiche. Ne sono un evidente esempio i dettagli decorativi "di derivazione architettonica dalle allungatissime bifore agli eleganti archi a sesto ribassato il cui estradosso si arricchisce di riccioli e culmina, al centro, con una slanciata inflorescenza. E ancora a modelli veneti va forse ricondotto il piccolo gruppo della Crocifissione in cui la figura del Crocifisso ricorda, in edizione miniaturizzata, la dolente immagine della trecentesca "Croce dei Principi" del Duomo di Gorizia.

Il reliquiario è stato restaurato nel 1997 dalla ditta Aba Muleo di Roma, a cura e sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici delle Marche di Urbino.

Su gentile concessione dei Proff. Benedetta Montevecchi, Luisa ed Ercole Collazzoni

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